Un viaggio senza ritorno

Il telefono urla dal bel mezzo del tornado. Mi alzo barcollando come una nave in tempesta. Le mura, morbide come pane, accolgono il mio corpo e lo risputano in continuazione finché il corridoio è finito. Intorno a me volti sfocati, deformi, orribili mostri che, divorati i miei compagni di viaggio, ne assumono adesso le sembianze. Alcuni di loro emettono indefinibili suoni…quelle voci, così profonde e grottesche, mi rimbombano in testa come rospi in amore. Sorrido loro…o almeno credo di farlo; ho paura e continuo a girare cercando di tenermi dentro quel che resta di una mente lucida e cosciente. Gli squilli del telefono iniziano a suonarmi come la conferma di vita di una creatura appena nata. La casa sembra immensa. il numero delle stanze raddoppiato ed io sono il criceto, al centro del labirinto, alla ricerca del pezzo di formaggio. Su di me, lo sguardo eccitato di uno studente che spera nella buona riuscita dell’esperimento…ci spero anch’io! Il sudore comincia ad inondarmi la fronte. Ho freddo. La mia temperatura inizia a rasentare la “Vecchia Signora”. Séguito la mia disperata e oramai sofferta ricerca del telefono quando ecco che i miei occhi s’inchiodano su quello che, un istante prima, avevo fortemente evitato di guardare: su di una parete il segna-tempo agita e oscilla freneticamente il suo pendolo e le sue lancette, poi con il loro velocissimo roteare, accompagnate da un insopportabile ticchettio…qualcuno lo fermi! Rimango pietrificato perché assalito da un terribile dubbio: si tratta di un semplice guasto meccanico oppure non è solo un caso che l’orologio, nella sua isteria, sembra essere entrato in simbiosi col battito del mio cuore? Una profonda ed interminabile risata accelera ancora una volta le pulsazioni del mio cuore che a questo punto sembra volermi uscire dal petto. È uno di quei mostri, è a terra, non lontano da me. Il suo corpo si agita e si contorce come un verme su una superficie rovente. Adesso assume una posizione fetale, alternando le risa al pianto. Mi avvicino timoroso. D’un tratto l’essere affonda i suoi artigli nei miei polpacci, spalanca le fauci e gradualmente inizia a sghignazzare con intensità sempre maggiore. Cerco fino allo stremo di liberarmi da quell’impossibile presa ed ecco che quel terrificante ghigno va mutandosi lentamente in una smorfia di disperazione. Torna il pianto. Le lacrime iniziano a fuoriuscire da due straripanti fari rossi e, percorse traiettorie differenti, si ritrovano sull’orlo di quel precipizio che le risucchia e le ingoia. Non resisto più. Provo nuovamente a svincolarmi da quella morsa, ma invano. Un moto impetuoso d’ira, che nasce dal profondo del mio animo, inizia a fluire dalle mie vene donandomi la forza per liberare una delle gambe. E mentre la creature getta il tentacolo rimasto vuoto sulla gamba ancora in ostaggio, io, spinto da una forza sovrumana, incomincio a scalciare pesantemente e senza interruzione, non andando mai a colpire il vuoto. Ad ogni colpo sento sulla punta del mio stivale, le ossa del suo volto frantumarsi con uno sconcertante tonfo. La presa s’indebolisce e voltando lentamente le spalle riprendo la mia ricerca, mentre mi sforzo di realizzare ciò che ho fatto. La mia mente è come un vaso contenente la pura essenza del caos. Al suo interno innumerevoli pensieri si mescolano tra loro senza ordine e distinzione. Cerco di catturare ciò di cui ho bisogno… …HO UCCISO UN UOMO! Ho ucciso… Riapro a fatica gli occhi. Quanto tempo è passato? Quanto, da quando ho dannato la mia anima, macchiandola di un imperdonabile crimine? Sono a terra disteso. Sopra di me il tetto sembra percorso da lunghissime onde. E mi sembra di sentire anche il suono del mare. La serenità e la purezza della natura, per un attimo, tentano d’instaurarsi nel mio essere purificandolo e spingendo fuori la corruzione del mio animo putrefatto. L’armonia dura ben poco ed è spezzata dall’ennesimo assordante squillo. Mi alzo con molta fatica e considerando la mia completa mancanza d’equilibrio ho la certezza, dopo la sensazione, che l’ambiente che mi circonda ha ben poco di solido e stabile…le pareti, il soffitto ed il pavimento su cui mi muovo sono enormi materassi d’acqua. I miei passi sono lenti e goffi. D’un tratto sono colto da una potentissima sensazione di colpevolezza, più forte di quello che resta della mia volontà. Questa mi trascina con forza indietro, fino ad uno spazio in cui ho la sensazione di essere già stato. Mi trovo davanti l’elegante orologio a pendolo che regolarmente segna ore, minuti, secondi. Faccio un passo indietro ed inciampo urtando il corpo della creatura alla quale ho strappato la vita. Gli siedo vicino e lo osservo. Quella che una volta era la sua bellezza è andata per sempre. Esanime, questo sembra adesso riacquisire il suo aspetto umano. Ma nel suo volto, l’armonia di forme e colori ha ceduto il suo legittimo posto a brandelli di pallida pelle lacerata. Il sangue, ormai secco traccia un disegno astratto fatto di linee ed archi. Chi era costui? A chi ho strappato via la prerogativa di vivere? La soddisfazione del semplice poter esistere, che nemmeno la più tenace credenza di una vita ultraterrena potrà mai consolare? Chiudo per sempre i suoi occhi e torno alla mia avventura. Il corridoio che ho davanti allontana da me, simultaneamente ad ogni passo il suo termine. Temo sia infinito. Intorno a me ombre senza un padrone che sfrecciano in tutte le direzioni al mio passare. La vista sfocata di un altro di quegli esseri m’infonde paura e angoscia. Questo è li. Di fronte a me. Avanza nella direzione opposta alla mia. Viene verso di me imitando il ritmo del mio in-cedere. Terribili pensieri, impregnati di disperazione mi attraversano come vecchie diapositive. Cosa farò? Sarà possibile per me un giorno tornare tra i vivi dopo aver scontato la pena del mio enorme peccato oppure ho già per sempre condannato la mia anima, assicurandole così un posto in prima fila negli inferi? Mi fermo a qualche metro di distanza da questo. Anche lui si ferma. I fantasmi nella mia mente cambiano argomento. Inizio a convincermi che le sue intenzioni non siano affatto amichevoli. Riprendo lenta-mente a camminare. Anche lui. Arrivo tanto vicino da poterlo focalizzare in volto. Impietrisco per l’orrore ed il cuore mi sobbalza in gola quando mi accorgo che il mutante prende le mie sembianze. Il suo viso deforme si avvicina ad una scarsa caricatura del mio. Abbasso il capo e provo a superare l’ostacolo, ma questo sembra anticipare tutte le mie mosse. C’ è qualcosa nei suoi traboccanti occhi che per un istante sprigiona in me un soffio di compassione. Non posso rischiare! Tendo le mie braccia in avanti e con passo sicuro avanzo e spingo più che posso contro le sue. Le nostre forze si equivalgono dal momento che nessuno dei due si sposta d’un solo centimetro. Mentre insisto con forza, scruto l’ambiente circostante in cerca di qualsiasi potenziale arma per poterlo colpire. Su due colonne, poste una accanto all’altra, due vasi di stessa forma e colorazione. Lascio la presa e rapidamente afferro quello più vicino a me. Lancio un urlo di rabbia e taglio violentemente l’aria con il vaso che adesso è fermo e minaccioso sulla mia testa. Ciò che vedono i miei occhi è sconcertante: quell’individuo, come se condividesse le mie stesse intenzioni è la fermo davanti a me, con la medesima aria minacciosa e con il suo vaso pronto a ridurre in frantumi il mio cranio. Preparato al peggio, stringo i denti e scaravento quell’arma impropria contro il mio nemico. L’impatto tra i due vasi è devastante. Il tempo, come in un film nel momento culminante della sua trama, rallenta il suo regolare fluire per nutrire la nostra insaziabile fame di pathos. Schegge di vetro impazzite sfrecciano in aria come asteroidi lasciandosi dietro un evanescente scia sonora. Il dolore quando queste penetrano la mia pelle è lancinante. Nella scena che ho davanti il raccapriccio non supera la soddisfazione. Posseduto da una ormai irrefrenabile malvagità provo delizia fino ad eccitarmi nel vedere il mio nemico sciogliersi in una calda pozza di sangue. Il vetro incisorio apre profonde fessure lungo tutto il suo corpo. Da queste il sangue sgorga a fiotti lunghi e pieni; il suo penetrante odore metallico mi da la nausea. Le mie palpebre cedono. Incoerenti immagini e suoni lontani rievocano primarie tappe della mia esistenza. Queste, che inizialmente scorrono in modo lento e ordinato, fanno adesso furenti acrobazie sullo sfondo nero della mia mente, annegando infine nel vorticoso caos che mi opprime. Mi domando – temendo la risposta – il perché di questo strano gioco. Deduco che questo sia un ultimo grande dono della nostra memoria: una catena di emozioni già vissute. Credo di essere giunto alla fase conclusiva del mio viaggio… …riapro gli occhi abbagliato dal candore del cubo bianco nel quale mi trovo. Nella sonora stanza, nonostante le piccole dimensioni, la sensazione di vuoto mi soffoca. All’interno di questa una sola colonna bianca si erge al centro, sostenendo all’apice l’oggetto della mia tanto patita ricerca. Il telefono nero, che crea in questa gabbia non poco contrasto, squilla per l’ultima volta. Alzo la cornetta e la porto all’orecchio. Dall’altro lato del ricevitore un respiro affannoso che a poco a poco si trasforma in un’inquietante, interminabile, demoniaca risata. Il sangue mi si gela nelle vene. Dalle pareti intorno a me il liquido, di un rosso intenso, inizia a scendere investendo la purezza di quel candido bianco. E in questa macabra doccia di sangue CALA PER SEMPRE IL PESANTE SIPARIO.



Luca Orlando

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